Colpito pochi minuti prima da un fulmine
che aveva parzialmente fuso la struttura metallica dell'apparecchio ed
investito da una tempesta di chicchi di grandine grossi come panettoni
mandorlati che gli bernoccolavano il capo, Pietro Z. stava per sfracellarsi al
suolo con il deltaplano in fiamme ormai privo di controllo quando d'improvviso,
con un colpo al cuore, rammentò di aver dimenticato il latte sulla fiamma del
fornello di casa e la zuccheriera aperta quella mattina a colazione. Che
disastro, pensò subito prima di impattare contro un costone di morbida roccia
muschiosa, mi evaporerà tutto lo zucchero ed il condominio esploderà alla prima
scintilla. Ed in effetti, subito prima di perdere i sensi dopo l'arrocciaggio,
gli parve di udire un boato sordo, in lontananza. Ma si trattava soltanto del
suo fuoristrada seminuovo, parcheggiato a pochi chilometri di distanza, che
veniva centrato da un satellite giapponese grosso come un mazinga sfuggito al
comando di poco solerti controllori di voli distratti dalla radiocronaca di un
incontro di sumo.
Ci
sono uomini che impiegano parole per esprimere idee ed altri che le usano come
paravento paradossale della propria inenarrabile anarchia mentale. Pietro Z.,
pur appartenendo alla seconda categoria, al risveglio pensò concretamente:
conigli frastornati si rivolteranno pure nell'intingolo come morti nella tomba,
ma perdinci, io sono vivo! Per la sorpresa aprì gli occhi e, miracolo, vedeva!
Era difatti divenuto completamente cieco ben quattordici anni prima, a causa di
uno stupido scherzo. In compagnia di amici goliardi soleva aggirarsi brancolando
nei pressi dell'Istituto per la Riabilitazione del Cieco Depravato chiedendo
confusamente indicazioni sulla toponomastica locale ma soprattutto
approfittando della cecità fasulla per palpeggiare malcapitate signorine e sollevare
loro la gonna con il bastone bianco. Finché una volta non dimenticò gli
occhiali scuri e la vittima predestinata, all'ennesima alzata di gonna
accompagnata da una sbirciata eloquente, colse l'inganno e gli assestò
un'ombrellata da manuale di autodifesa per femministe isteriche sulla nuca. Fu
prontamente soccorso dagli amici burloni e, come volevasi dimostrare,
trasportato al pronto soccorso. Ma il fatto veramente drammatico si verificò al
risveglio, quando lui si trovò totalmente cieco a brancolare in una notte abissale
e tutti i presenti, amici, dottori ed infermieri inclusi, credettero che il
burlone stesse sdrammatizzando l'accaduto fingendo di proseguire nello scherzo.
Urlò e pianse la sua disperazione nell'entusiasmo generale, tra risate a
crepapelle e grandi pacche sulle spalle. Gli capitò così di essere dimesso a
viva forza e lasciato in mezzo ad un marciapiede, con gli amici che si
accomiatarono ad uno ad uno da lui con nuove ovazioni e scrosci di risate.
Poiché nessuno gli credeva, anche Pietro Z. finì per non credere ai suoi occhi
e, rimasto solo, cercò di non drammatizzare. Fu investito dodici secondi più
tardi da un sidecar guidato da un pretacchione completamente ubriaco di
vinsanto per le troppe messe commemorative celebrate quella mattina, in ricordo
delle vittime della strage avvenuta durante la grande vendemmia organizzata
l'anno precedente dal comitato per la riabilitazione sociale dell'alcolista
anonimo, e in men che non si dica era di nuovo sul lettino del pronto soccorso,
non prima di essere stato confessato, estremamente unto (nel senso di aver
subito l'estrema unzione con mezzolitro di extravergine) ed infine sposato con
un allibito portantino dal molto reverendo che si sentiva vagamente in colpa.
Andò
avanti così, fuori e dentro dall'ospedale sempre più ammaccato ed accompagnato
dall'irritante allegria di dottori ed infermiere, per qualche mese, finché lentamente iniziò ad
abituarsi alla propria condizione perennemente notturna. Riuscì a tornare a
casa e infine tornò persino a guidare l'auto, grazie ad una misteriosa polizza
assicurativa molto favorevole ed in verità fraudolenta che gli consentiva di
riscuotere lauti indennizzi dalle centinaia di tamponati ed ingiuriati. Un
prozio vicequesturino lo copriva con le autorità competenti, sostenendo la tesi
che Pietro Z. non era davvero cieco ma solo molto sfortunato e che, se proprio
fosse stato cieco, non era il caso di infierire. Quel che è più importante
riprese a praticare di nuovo, ma stavolta con più convinzione, lo stupido
scherzo del cieco porcaccione. Tenne in cuor suo l'atroce segreto e, quando gli
capitava di urtare frontalmente un palo, scambiare il cane di un'amico per uno
zerbino o tenere un giornale a contrario, se la cavava sempre fingendo di
riproporre per l'ennesima volta la gag del cieco burlone.
Ma
adesso tutto questo era finito. Pietro Z. poteva di nuovo lasciarsi
impressionare le retine dalla baldanza del verde, dall'arroganza del rosso,
dalla cupidigia del blu, dall'incertezza del viola, dall'ossessione del giallo,
dall'insignificanza del beige, che lui odiava. Già, pensò, chissà di che colore
è il mio fuoristrada seminuovo, senza poter neppure immaginare che esso era
ormai ridotto ad un fiore selvaggio di lamiere (peraltro color beige). Ma poi
mise piano piano a fuoco l'immagine e raggelò: era sospeso in alto, fluttuante,
e poteva chiaramente vedersi deposto sul letto ed avvolto interamente in
un'ingessatura integrale. Gesù, ma allora sono morto, pensò. Questa è la mia
anima che vaga nella stanza. Ricordò tutti i casi di metampsicosi di cui aveva
sentito parlare da un'amica spiritista, con la quale aveva peraltro partecipato
anni addietro anche ad un'interessante seduta spiritica durante la quale nel
medium si era incarnato il petomane che aveva comunicato a lungo coi presenti a
modo suo.
Un
dentista di Minneapolis, dopo tre teglie di pizza ai peperoni, era uscito dal
proprio corpo e aveva fluttuato a lungo nella pizzeria cacciato per tutta la
stanza come un calabrone volante dal pizzaiolo armato di pala che temeva si
dileguasse senza pagare il conto, ma nonostante tutto osservando con disgustata
ironia il proprio obeso involucro terrestre accasciato sulla sedia. Una guardia
notturna di Adelaide, che stava subendo una delicata operazione di
emorroidectomia, si ritrasse inorridito dal proprio corpo a causa di uno stato
di morte apparente e ne approfittò per osservare particolari a lui altrimenti
sconosciuti della sala operatoria ma sopratutto per compiere atti osceni
sull'infermiera, che però si vendicò poco più tardi, al suo rientro,
ricucendolo stretto stretto. Un cammelliere di Abudabu, sospeso tra la vita e
la morte per un'insolazione, volteggiò sempre più per aria nella calura
accecante del deserto arabico finché una forza divina lo risospinse verso il
basso giusto in tempo per accorgersi che anche il cammello aveva subito un
fenomeno analogo ma, più celermente e furbamente, si era già reincarnato
accomodandosi nelle sue precedenti spoglie umane, al che lui fu costretto ad
introdursi nel corpo del cammello (la storia in verità non fu narrata dal
cammelliere, bensì dal cammello). Un sassofonista di Buenos Aires, nel corso di
un interminabile acuto jazzistico, esalò letteralmente l'anima che
fuoriscendogli dalla bocca attraversò i gangli sonori dello strumento producendo
un verso talmente chioccio e stonato che lui per la vergogna rientrò subito
mestamente in sé e, riposto da allora lo strumento nella custodia, prese ad
esercitarsi lo spirito con estenuanti solfeggi morali. Un parcheggiatore
abusivo di Pozzuoli, rintanatosi d'agosto nel bagagliaio di una cinquecento per
fare uno scherzo ad un amico, vide evaporare la propria anima senziente che si
godette appollaita sulla capote lo spettacolo dell'amico che apriva il
bagagliaio e, invece del pacco di sigarette contrabbandate da lui già vendute
di nascosto, trovava il suo apparente cadavere, dopo di che sghignazzando
rientrò in sé giusto in tempo per prendersi i divertiti rimbrotti dell'amico
che lo investì con l'auto procurandogli lesioni permanenti con annessa pensione
di invalidità. Un tennista di Digione, stordito a racchettate dal compagno di
doppio per un errore madornale su volé, innalzò il proprio spirito indomito
fino al seggiolone dell'arbitro dove un senso di beatitudine lo invase, quindi
generosamente acconsentì a reimmergersi in sé e da quel momento, più saggio e
maturo, non commise più doppi falli eccetto uno decisivo che gli costò la
partita ed un'ulteriore racchettata che stavolta non portò la sua anima nello stato di beatitidine ma solo il suo corpo al pronto soccorso.
Pietro
Z. cercò disperatamente di rientrare in sé, ottenendo però l'unico risultato di
piombare fragorosamente a terra cadendo dal trespolo sul quale lo avevano
appeso per tenergli in traino le numerose fratture. Fu così sollevato di sapere
che la propria anima era sempre rimasta saldamente impiantata al suo posto da
non rammaricarsi nemmeno delle ulteriori ossa rotte con il volo: "Una più
una meno..." disse sportivamente alle infermiere, che lo applaudirono a
lungo prima di ingessarlo senza pietà persino là dove una fasciatura elastica
sarebbe stata forse più indicata.
Al
momento dello sbandamento e delle dimissioni, che avvenne in simultanea con il
suo compagno di stanza, che aveva scambiato per sé stesso, quest’ultimo si
sarebbe rivelato essere - colpo di scena! - suo fratello gemello Paolo Z..
Questi era scomparso due decenni prima nel corso di una drammatica battuta di
caccia al cinghiale durante la quale era stato catturato e tenuto in ostaggio
dall'animale decisamente innervosito, fino a che non se ne era persa notizia. Lo stato di amnesia nel quale si trovava il gemello Paolo Z., giunto in
ospedale pochi mesi prima dopo essere stato centrato dalla rosa
di pallini sparata da un bracconiere notturno, venne meno con l'abbraccio fraterno. I
due si abbracciarono lungamente, piangendo e grugnendo, quindi molto signorilmente si strinsero le mani e si salutarono, né mai più da allora si sono rincontrati.