venerdì 28 febbraio 2020

Nel club degli animali estinti



E’ lui l’animale estinto
che nessuno mai ha pianto
sparì senza lasciar traccia
per non essere minaccia

capitò, da malaccorto,
proprio lungo un ramo morto
del percorso evolutivo
e perciò non fu più vivo

colpa d’una distrazione
incappò nell'estinzione
e a nessuno parve insano
quel decreto darwiniano

all'ambiente trasformato
si sentì disadattato
non oppose resistenza
preferì la desistenza

a mutare la sua essenza
d’animale che ha pazienza
si commuove e non uccide
è indolente, spesso ride

preferendo far l’amore
a inventarsi cacciatore
finché l’ultimo esemplare
non sapendo come fare

a provar l’estremo orgasmo
ideò l’autoerotismo
conformarsi al nuovo mondo
gli sembrò dovere orrendo

a quella natura ostile
preferì mostrarsi vile
e s’arrese al suo destino
sorseggiando un buon vino

non pregò, non ebbe fedi
se n’andò in punta di piedi
anche se ne era privo
giacché essendo molto schivo

non ne aveva alcun bisogno
quel che era adesso è sogno
niente scheletro né ossa
si dissolse la carcassa

niente fossili od orme
nella pietra stratiforme
non finì in un blocco d’ambra
ora è meno d’un ombra

cui un nome mai fu dato
ma lui sa d’aver vissuto.

sabato 22 febbraio 2020

Le pene del pene




Il pene ha molte pene
ma tre sono supreme.

Per cause freudiane
la prima pena è il pane
a forma di baguette
intera, mica a fette,
ma anche sfilatino
sfornato ogni mattino
data la forma fallica
lo stesso metro applica
alla propria misura
si sente miniatura
in foggia molle o dura
diametro o estensione
di qui la delusione
che a esso si conviene
ossia invidia del pene.

Seconda pena è il verso
che il pene di traverso
assume ciondolando
nel suo piccolo mondo
(di solito mutanda)
dove la testa affonda
con la sua austera flemma
di lì nasce il dilemma
dalla valenza estetica
ma anche un po’ politica:
poiché rifuggì il centro
temendo uno scontro
va a destra o a sinistra?
Una scelta maldestra
e il pene è rovinato
a vita condannato
a spenzolare inerte
con le palle conserte
per tutta un’esistenza
di scomoda pendenza
in quel senso sbagliato
per cui in modo avventato
un giorno s’è schierato.

La terza pena è forse
quella che più concorse
a dare sofferenza
al pene in astinenza
è smania interiore
sentirsi superiore
a qualsivoglia pene
dalle fattezze umane
di ogni aspetto o peso
integro o circonciso
ponendo il suo sigillo
in ogni buco o ugello
del quale abbia sentore
(n’è sintomo un gonfiore)
foro od orifizio
sospeso ogni giudizio
giuridico o morale
indifferente al male
persegue quel disegno
ma se ne sente indegno
si teme cosa gretta
triste proboscidetta
del resto in quell'invaso
non vive alcun riposo
è inetto a ogni pertugio
dove non v’è rifugio
ma frenesia ulteriore
di darsi più da fare
troppi son quegli anfratti
altri peni più adatti
in quel gioco snervante
si sa già soccombente
che poi a pensarci bene
questo ha capito il pene
da dolente carenza
deriva l’impazienza
ficcarsi quale ossesso
in qualsiasi recesso
ma quel vuoto introflesso
di cui brama il possesso
non alberga nel sesso
bensì dentro se stesso.

venerdì 14 febbraio 2020

Quella tigre siberiana



Quella tigre siberiana
che con larghi plaid di lana
rilassato e senza cruccio
si godeva il bel calduccio
stufe a gas incandescenti
per non battere più i denti
e i termosifoni accesi
nel giaciglio in tutti i mesi
di quest’infinito inverno
cui un ignavo Padreterno
od ancora peggio il fato
pare averlo condannato
(in Siberia, è dimostrato
anche il gelo è più gelato)
ora sconta il contrappasso
dimagrito come un osso
e con l’animo percosso
vive un tristo paradosso
che lo avvolge quale dramma
in un tragico dilemma
la compagna nella tana
dolce tigre siberiana
gli ha svelato all’improvviso
muso a muso, o viso a viso,
che quel loro folle amore
puzza troppo di sudore
e la scelta, a malincuore
è tra lei e quel tepore.

L'indolente facocèro


L’indolente facocèro
ha in orrore lo straniero
la ragione è presto detta
lui l’ha fatta, e ora l’aspetta
(pur suino, a dare retta,
si mangiò pane e porchetta)
così vive tremebondo
il suo essere nel mondo
nel timore a sé rivolto
che il nemico senza volto
che prima che non si creda
lo trasformerà in preda
sia ancor lui, il facocéro
che con spirito guerriero
si condanni a tradimento
a ogni sorta di tormento
le sue stesse carni infetti
con pensieri turpi e abietti
poi si sbrani a grandi morsi
la coscienza di rimorsi
e si dia il colpo di grazia
realizzando la disgrazia
dell’essere facocéro
a se stesso uno straniero
o scenario ancor peggiore
di se stesso il predatore.

sabato 8 febbraio 2020

L'agnello sacrificale



L’agnello sacrificale
si trovò sopra un altare
punzecchiato col pugnale
da mano sacerdotale
e iniziando un po’ a sudare
belò: ch’ho fatto di male?

Tu bramasti agnelle altrui
molestasti capre e buoi
adorasti il dio sbagliato
un vitello pur dorato
hai rubato erba e fieno
e cacato senza freno
su qualsiasi terreno
nonché in barba a ogni divieto
hai pisciato su un tappeto
masticasti bruchi inermi
e miriadi di vermi
pur se agnello hai fornicato
come pecora sul prato
manco eri fidanzato
hai mentito, spergiurato
pur di esser benvoluto
da chi hai sempre disprezzato
ai tuoi pari, il tuo gregge
anziché parole sagge
riservasti le scoregge.

Questo disse la coscienza
dell’agnello e fu sentenza
che accettò come s’accetta
secco il colpo dell’accetta
fu l’estremo suo soccorso
s’azzerò ogni rimorso
e beato fu l’istante
in cui non sentì più niente.



domenica 2 febbraio 2020

Manuale difettato per l’uso delle parole d’amore



Facile parlarsi d’amore
sulla mezzaluna d’una spiaggia spopolata
col tramonto che dal mare già nero
smorza piano le braci all’orizzonte
trasmettersi l’impellenza del sentimento
di fronte alle coreografie di un’aurora boreale
che erompe tale e quale al prodigio d’un illusionista
o mentre guardiamo dalla costa
sui fianchi d’un Etna colossale
le cicatrici infernali d’una colata di lava
in una notte di fine gennaio
l’aria ferma e affilata
come in una bolla di cristallo
ovvero, ancora più convenzionale
nella culla d’un letto disfatto
gambe e sensi ancora attorcigliati
nell’intorpidirsi che segue il piacere
per quella volta inatteso
o sotto una curva parabolica di stelle
perfetta come una formula matematica
se non – a voler esagerare
fra i tanti arcobaleni di Iguazù, chiavi di volta
innalzate nella nebbia d’un concerto di cascate
o mentre suona la stessa musica della sera inesauribile
in cui capimmo di non avere altra scelta che amarci
(e se invece tutto taceva fuorché noi – qui il ricordo sfuma –
ogni canzone ci parrà quel silenzio)
o magari tra i ruderi d’una chiesa a cielo aperto
l’abbazia di San Galgano sede ideale
di fronte all’altare spoglio di pietra
arreso all’evidenza d’un amore terreno
al punto che nessun dio potrebbe averlo mai concepito
tanto meno creato
così a noi due soli toccò quel potere.

Chiunque potrebbe dirsi parole d’amore
nel suo abito più semplice, in un ambiente protetto
persino coglierne significato e valore
esagerandoli un po’, com’è giusto che sia
poiché eccessivo è il concetto stesso d’amore.
Non è da me. Non fa per noi
che siamo anime sedimentarie
e le storture dei nostri cuori
le custodiamo quali segni più cari.
Se abbiamo un segnaposto su questa terra
coincide con ciò che è in eccesso, e a volte spaventa
come il colpo in petto dell’extrasistole.
Perciò ci dichiariamo roteando
in un girotondo di luna sulla pietra leccese
e succede in silenzio, che bastano gli occhi e le mani.

Allora vorrei saperti dire dell’amore ch’è il nostro
in occasioni dissennate, inopportune, sciagurate
attingendo fedelmente da un manuale difettato.
Durante un sonno senza sogni, di certo
affondare parole
come pietre lanciate in un lago notturno
nella parte incosciente di te
che sa accoglierle al meglio, e sola capirle
oppure mentre il fruscio del tuo fiotto d’urina
ne discioglie suono e senso compiuto
avvolgendole in un calore carnale.
Sublime sarebbe poi il paradosso
parlarti subissato dal riso smodato d’una moltitudine
in risposta alla freddura grossolana
d’un guitto che si pavoneggia sul palco
nell’arena stracolma dove entrammo per caso
un po’ come in questa vita, a ben pensarci.
Chissà se oserei far sbattere sdrucite frasi d’amore
con l’ostinazione di mosche intrappolate
contro la vetrata oltre la quale si sfogano
i veri orrori del mondo, invisibili ai più
un reparto oncologico, per dire
dove il male colpisce cieco e puro
e ognuno abbandonato dal proprio dio
torna alla fine inutilmente innocente.
Uno di quei siti dannati, cristiddio, un mattatoio
nel punto esatto del loro passaggio
in cui gli animali percepiscono la destinazione
e s’impuntano recalcitranti con nudo terrore.
O nell’abitacolo della nostra auto bloccata in fila
mentre tutt’attorno gli sciacalli s’accalcano
per la visione ravvicinata d’asfalto chiazzato
e lenzuola sui corpi.
Chissà se riuscirei a parlarti d’amore
mentre fai l’amore con un altro, se devi,
confidando solo di dissolvere
ogni nervo e fibra
qualsiasi coscienza di me
che non sia in quell’amore.

Vorrei poter dire queste parole
alla te che sei stata prima di trovarci
quella te che era e sarà all’infinito
ostaggio della mia assenza
e sollevarla così dall’attesa
d’un amore che, certo hai capito
riconosciamo da un anno, un anno solo
ma è sempre esistito.