[Annunciato
dal presentatore entra in scena tra pochi
applausi esitanti, saltella
qua e là sul palco per una decina di secondi,
poi si ferma di colpo, si piega in due e rimane
immobile per un attimo. Si rialza piano,
affannato, per avvicinarsi
al centro del palco, con la mano si aggrappa
allo schienale di una sedia sulla quale è
posato il microfono. Lo
impugna ancora ansimante, scatarra rumorosamente e
sputa in terra]
Merda,
non ho più l’età per queste stronzate. Sembravo un cazzo di
canguro epilettico. Ma che buco di culo di posto è questo? [scruta
intorno strizzando gli occhi, accecato dalle luci di scena]
In che borgo paese città o discarica di liquami tossici e scorie
radioattive ci troviamo, esattamente? [una voce urla: ****].
Ah, ecco siamo a ****. Ora mi spiego quel tanfo di cadavere frollato
quando sono sceso dall’auto. **** , la ridente località dove la
lobotomia si associa alla circoncisione come pratica igienica
raccomandata alla nascita. Entrambe ottimi rimedi artigianali contro
la crescita delle teste di cazzo. Vorrei solo capire se le vostre
facce sono frutto di mutazioni genetiche per l’irradiamento da
isotopi d’uranio o derivano dall’accoppiamento tra consanguinei
perseguito nel corso dei secoli come tradizione folklorica. La
saggezza intrinseca del detto popolare vi fa corona, popolo di ****.
Non c’è cosa più bella che trombarsi la sorella. Non c’è cosa
più divina che trombar con la cugina. E’ un lusso d’alta gamma
ingropparsi pure mamma. E’ una sana acrobazia fottere pure zia. E
tirata su la gonna trombare anche la nonna.
Ma
adesso è il momento della vostra redenzione, popolo d’incestuosi
depravati. Mi faccio carico io di voi e della vostra condizione di
dissesto umano, sociale, urbanistico. Tutto quello che vi occorre è
una manifestazione internazionale che restituisca lustro a questa
fogna a cielo aperto. Le olimpiadi no, è un passo più lungo della
gamba, troppa corruzione di delegati del comitato olimpico
internazionale da gestire, provinciali e miserabili come siete vi
scoprirebbero subito mentre vi aggirate per le hall degli alberghi a
nove stelle coi vostri salvadanari a porcellino.
Ma
adocchiando le signore in sala ecco la mia intuizione, un’idea che
definirei geniale se l’attributo di genialità non fosse ormai
inflazionato. Ascoltatemi [si avvicina alla platea, come se
parlasse in confidenza]: candidiamo **** a sede
della prossima edizione del campionato mondiale di bukkake. Faccio
parte del comitato organizzatore, so di cosa parlo. E non fingete di
ignorare cos’è il bukkake. Somiglia al burraco, ma con più
sperma. Con quelle occhiaie da segaioli acca24 che dai tempi di una
precoce adolescenza trascorsa davanti allo schermo del computer
scorrono scientificamente in rassegna tutte le categorie del porno il
bukkake lo conoscete come le vostre tasche, quelle tasche bucate con
perizia chirurgica per manipolarvi il batacchio in santa pace
strofinandovi sugli autobus affollati. Su tutti i siti porno degni di
questo nome il bukakke alfabeticamente viene subito dopo la “brutal
turbo-dildo experience” e prima del filone messicano del “burrito
in the ass”.
Semplifico: è quella pratica ginnico-acrobatica nel corso della
quale un’estesa platea di maschietti copulando e strofinandosi dove
capita e menandoselo a piene mani eiacula su un corpo, meglio ancora
dentro una bocca estatica di femminuccia, accecandola e annegandola
di secrezioni testicolari. Volete ospitare l’evento che attira i
più generosi ricettacoli di seme del pianeta e una cospicua platea
di pervertiti al seguito? Posso metterci una parola buona, basta
pagare s’intende. Tirate fuori i vostri porcellini. O meglio ancora
le porcelle, che i pagamenti in natura sono ben accetti, così come
le principali carte di credito – esclusa American Express.
Che
poi mi sarebbe venuta pure un’altra idea. Si fonda sul principio
della fisica che nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si
trasforma soggiacendo alla legge di gravità, come dimostra il mio
scroto nel quale ormai inciampo quando cammino senza mutande [finge
di sbottonarsi i pantaloni] – qualche volontaria tra il
pubblico per un rapido check-up? Bene, coi residui della pratica
agonistica di bukakke si potrà fondare la più vasta e ben rifornita
banca dello sperma al mondo. Orsù ,ci si armi di spatole, si
puliscano i pavimenti e si riempiano provette e siringhe per una
caritatevole fecondazione artificiale low cost. Che poi si unisce al
gusto dell’azzardo: in quel meraviglioso brodo primordiale, anzi
broda primordiale, chissà quali fantasmagoriche combinazioni
genetiche potranno sprigionarsi. Impregnatevi in una slot machine
fecondativa, la creatura può risultare caucasica nera bionda albina
ermafrodita comunista liberaldemocratica con gli occhi a mandorla già
circonciso o infibulata, futuro premio Nobel per la fisica o con
serie difficoltà ad allacciarsi le scarpe senza aiuto a trent’anni.
Già mi pare di vederli i cartelloni pubblicitari negli scali
aeroportuali di tutto il globo: ****, la Svizzera dello sperma,
l’Eldorado della sborra, meta prediletta di tutte le gentildonne
intenzionate a farsi sborrare in faccia o ingravidare
artificialmente. Magari entrambe le cose, se lo si gradisce anche in
simultanea [una voce
isolata protesta].
Ma
che cazzo avete da lamentarvi? Non sono come quelle mezzeseghe dei
miei colleghi che non sono ancora scesi dalla limousine e già
dichiarano il loro amore perenne per le bellezze di qualsiasi tazza
di cesso di luogo si trovino sbattuti giusto il tempo di pisciarci
sopra l’obolo di qualche barzelletta riciclata. Me ne fottesse
qualcosa di questa questa fossa settica dove avete avuto la sorte di
impantanarvi a vita dopo averci depositato un figlio o due o tre o
comunque il numero minimo che vi consente di vivere di rendita come
parassiti grazie ai sussidi familiari. Anzi, sapete che vi dico? Per
farmi perdonare della mia nefandezza verbale vi onorerò ancor più e
meglio dei miei colleghi. Non mi limiterò a qualche repentino e
distratto spruzzetto di piscio. Vi nobiliterò defecando
generosamente su di voi tutto quel che mi ribolle nell’animo,
un’odorosa, torrida, densa diarrea di parole. Allora continuiamo a
parlare di merda, anzi approfondiamo l’argomento fecale, visto che
sto iniziando a prenderci gusto. Parliamo d’amore.
Sono
il primo a provare una genuina sorpresa. Proprio oggi, proprio qui a
**** mi sono scoperto appiccicaticcio di benevolenza e sudore, pronto
a espellere amore universale e gas intestinali, incredulo e
traboccante di buoni sentimenti e catarro. Per questo, solo per
questo entrando in scena mi sono messo a saltellare come un rospo
allucinogeno, prima che il cuore con un’extrasistole ventricolare
mi spedisse un preavviso di disdetta dal contratto di locazione. Il
mio adorato spacciatore deve avermi smerciato i suoi avanzi di
magazzino avariati. Oppure la merda anfetaminica che di solito rifila
all’uscita delle scuole elementari per ringalluzzire gli scolaretti
tossici. Maledetto avido sorcio di fogna. Lo adoro. Per lui
m’immolerei su una pira infuocata come una cazzo di vedova indiana.
Tra
tutte le apparizioni lisergiche generate da una mente sovrastimolata
da sostanze psicotrope voglio concentrarmi stanotte sulla più
inquietante. No, non la visione di dio, il vostro dio tutto sommato
distante e relativamente innocuo per quanto onnipotente, tipo un
capomafia per intenderci, almeno finché qualcuno dei suoi emissari
non vi minaccia in nome suo di dannazione eterna se non rispettate i
suoi dettami, cioè essenzialmente il primo e unico comandamento :
pagare il pizzo. No, oggi guarderemo in faccia all’amore, sperando
che il suo lampo accecante non ci trasformi in statue di sale come la
moglie di Lot in fuga col culo in fiamme da Sodoma e dai sodomiti.
[scruta tra il pubblico] Ma che sto a sprecare il fiato, che
cazzo ne sapete voi della bibbia a parte le rimasticature rigurgitate
delle prediche domenicali. In breve, i sodomiti sono gli
inchiappettatori seriali dei bei tempi antichi, Sodoma la capitale
Lgbt avanti Cristo, la città dove gli eterosessuali superstiti erano
riconoscibili per la loro spiccata attitudine a muoversi guardinghi
rasente i muri.
Bene,
come un estetista cocainomane scruterò da vicino il volto
impenetrabile dell’amore, quel dolce visetto adolescenziale. E
dunque butterato da pustole, acne, punti neri, foruncoli. Voglio
strizzare unghia contro unghia tutto quello che è possibile da
quella pelle avariata, e che sebo e pus e sangue si spruzzino
copiosamente su di voi. Amen.
Mi
denuderò per voi facendomi domande sull’amore. Anzi, facendomi una
sola domanda, l’unica che abbia senso e dignità. In quale angelico
essere carnale potrebbe mai incarnarsi il mio indegno amore d’uomo?
Quale creatura vivente potrebbe mai diventare asilo del mio
sentimento tanto nobile e puro e del mio cazzo tanto ignobile e duro
in ogni suo orifizio o cavità penetrabile, fisico o mentale che sia?
Potrei chiederlo a voi, se solo la stolida espressione con cui mi
state osservando non mi inducesse tanta pena quanta repulsione.
Allora cercherò di usare metafore semplici, volerò basso, proprio
come un uccello padulo, perché quella che ci serve è precisamente
un amore ad altezza di culo.
L’amore
somiglia a un attacco di emorroidi, quando ne siamo afflitti pare
interminabile, ma di regola dopo un po’ si esaurisce. Avete
presente le emorroidi? Quelle capsule soffici che si trovano proprio
nel punto in cui il garbato bocciolo di rosa del vostro bucodiculo si
affaccia speranzoso al mondo, quegli elastici globuli che normalmente
incoraggiano la fuoriuscita dei residui tossici della merda che avete
ingurgitato qualche ora prima sotto forma di hamburger di sorcio o di
cazzo di verdurina biodinamica concimata con la merda del sorcio di
cui sopra. Ecco, di tanto in tanto può capitare che a quelle
innocue, garbate entità emorroidali si sostituisca una lama
infuocata di katana infilzandosi come un’asta rovente su per il
vostro culo, al punto da farvi sperimentare un’inaspettata
sensazione di empatia con i polli da girarrosto. Se non vi è mai
successo basta un briciolo di pazienza. L’emorroide, come l’amore,
fa parte del corredo di sofferenze terrene prescritte dal dna umano
per ricordarvi ogni giorno della vostra esistenza che dio esiste. E
vi odia. Visto che non è sufficiente la rappresaglia di una castigo
eterno per tenervi in riga in caso commettiate atti impuri o
desideriate la donna d’altri, il boss divino ha addobbato la vostra
vita col carico da novanta di malattie e afflizioni per potervi
estorcere l’obolo di preghiera e moneta richiesto per glorificare
le sue scadenti protezioni terrene.
Ecco,
l’emorroide si affaccia inattesa e a tradimento, proprio come
l’amore. Emorroidi e amore incendiano, mente o culo. Emorroidi e
amore hanno gli stessi sintomi: smania, pensiero ossessivo e
infiammazione. Sembrano eterni quando affliggono, ma poi i sintomi si
attenuano. Si potrebbero persino curare nello stesso modo, con la
Preparazione H ©, sacro unguento
miracoloso: lubrificare per bene l’orifizio, praticare una
fiammeggiante penetrazione anale e tutto passa, amore ed emorroidi.
Fa un po’ male, anzi è lancinante come infilarsi un criceto
cosparso di alcol e incendiato su per il culo, ma a qualcuno potrebbe
persino piacere. Non al criceto, presumo. A meno che non fosse già
intenzionato a immolarsi come un bonzo kamikaze nel vostro colon per
protestare contro la vivisezione. Difficile da verificare, ad ogni
modo.
Basta
che non ci facciamo illusioni. Ogni amore è un amore infelice.
Nessun innamorato vive per sempre felice e contento. Bene che vada,
alla fine uno muore e l’altro resta vedovo straziato dal dolore,
prostrato dalla solitudine. Sempre che non si opti per il suicidio
simultaneo, o per l’omicidio-suicidio, comunque valide alternative
alla crisi della coppia. Non è un caso se la più straordinaria
storia d’amore mai concepita, quella di Giulietta e Romeo, prevede
la dipartita quasi contemporanea dei due poveri cristi ancora
impuberi. Altro che tragedia, è una benedizione questa. La vera
sciagura sarebbe la sopravvivenza. Ultimo atto del dramma
shackespiriano: i due fuggono a Portogruaro in un bilocale, presto
iniziano gli screzi per questioni banali, come il colore delle tende
del soggiorno o le polpette cucinate con troppo aglio, lui
indispettito e frustrato per il calo del desiderio di lei inizia a
tradirla con le amiche d’infanzia, ci prova persino con la balia in
visita di cortesia, lei isterica inizia una guerra psicologica che
culmina con lo sciopero del lavaggio dei panni sudati del calcetto
del mercoledì sera, in un estremo tentativo di riappacificazione
azzardano la procreazione ma le estenuanti esigenze quotidiane e le
prolungate insonnie per la cura dell’infante che strilla come un
indemoniato accentuano le tensioni, lei cerca sfogo alle frustrazioni
trovandosi un amante più giovane e lui, che comincia ad avere seri
problemi di impotenza dovuti alla frequentazione ossessiva di siti
porno con conseguenti pratiche onanistiche compulsive, si rifugia
nell’alcool, viene licenziato dalla fabbrica e si ammala di
cirrosi, per fortuna prima che lo vinca l’insufficienza epatica ha
almeno il buon gusto di decedere in un incidente stradale purtroppo
in stato di ebbrezza così che l’assicurazione non risarcirà
nulla, lasciando Giulietta da sola a ingozzarsi di cibo spazzatura
con bulimica voracità, un figlio piccolo da crescere da sola –
l’amante giovane si è eclissato istantaneamente alla notizia della
prematura scomparsa di Romeo – e un bel po’ di rate di mutuo da
pagare, vistose smagliature su cosce e glutei, spesse occhiaie
violacee e seri sintomi di depressione clinica.
[con
la voce in falsetto, imitando un’ipotetica Giulietta]
“Buona
notte, buona notte! Lasciarti è dolore così dolce che direi buona
notte fino a giorno”
Sì,
buonanotte e fanculo,
Romeo.
Nessuno è felice, nessuno è
contento. Romeo, il più fortunato, almeno si è tolto dai coglioni.
[con
voce impostata da attore drammatico]
“Questa
mattina porta una pace che rattrista; nemmeno il sole mostrerà la
sua faccia. Andiamo via da qui, a ragionare di questi dolorosi
avvenimenti. Per alcuni sarà il perdono, per altri il castigo
immediato: poiché mai storia fu più triste di quella di Giulietta e
del suo Romeo
disgraziatamente
sopravvissuti
a veleno e pugnale”
Dice
bene il Bardo, andiamo via da qui. Ma anche senza aspettare che il
tristo mietitore faccia il suo dovere c’è un’altra ragione
talmente ovvia dell’impossibilità logica di un amore felice che
persino quel residuo di coscienza che ancora balugina dietro il
vostro occhio intorpidito dalla deprivazione sensoriale delle
consuete dodici ore quotidiane patetici tentatici di rimorchiare su
tinder tra un filmato di gattini goffi e cagnolini teneri e
l’altro dovrebbe consentirvi di coglierlo. Nessun altro essere
umano potrà mai appagare lo straripante carico di tutte le nostre
aspettative esistenziali, affettive e sentimentali. Sono troppe, sono
troppe, sono troppe cazzo, aggrumate come una massa tumorale da
quando siamo fuoriusciti da quella primordiale sacca di liquido
amniotico dove già abbiamo iniziato a maturarle in stato embrionale:
prenditi cura di me, nutrimi sempre, ninnami al tuo ritmo cardiaco,
scaldami con la tua placenta amorosa, proteggimi dai mali del mondo,
cullami al tuo passo ondeggiante, rincuorami sempre, dammi vita e
conforto. Il nostro amore dovrà essere un assemblaggio destrutturato
ma ricomposto in forma armoniosa di tutte le fantasie ed esperienze
che si sono susseguite e intrecciate e stratificate come rocce
sedimentarie nelle ere geologiche del nostro infinitesimo arco di
vita. E’ per questo che diventa sempre più complicato innamorarsi
quando si invecchia, quell’archetipo ogni giorno un po’ più
sfaccettato tende inevitabilmente a distanziarsi dalle sue forme
realizzabili in una carne che si corruga e suda e scoreggia.
Parlo
da maschio eterosessuale, poi ognuno potrà costruirsi l’identikit
della propria personale umana depravazione e deprivazione
sentimentale. Nella figura mitologica che è l’incarnazione del mio
amore dovrà esservi un po’ di mia madre, sicuramente la prodigiosa
tetta che mi porgeva da neonato e gloriosamente azzannavo e che ho
rimpianto da allora ogni giorno della mia esistenza, e la compagna di
classe o di giochi – e chi se lo ricorda più – che per prima me
l’ha fatta vedere in bagno ai tempi delle scuole elementari, e la
magica pornoattrice sotto il cui vello inguinale nerissimo scoprii
nella foto del giornaletto zozzo che esistevano, dio se esistevano!,
tenere cavità femminili dentro le quali avrei potuto da quel momento
avventurarmi e perdermi per l’eternità di un orgasmo che infatti
giunse un istante dopo, e la ragazzina del primo bacio senza lingua
al cinema e poi quella in discoteca del primo bacio con la lingua
ruotata a mulinello che quasi mi procurò uno stiramento muscolare, e
la commessa del supermercato dalla scollatura portentosa, e la
vigilessa inflessibile e severa nell’impormi dopo un semaforo rosso
bruciato il rigore della sanzione a norma di legge che putroppo non
consisteva in una sculacciata sulle sue ginocchia, e un pezzetto di
ogni esperienza sensuale e sessuale che ha ingioiellato e intorbidito
il mio subconscio marcio di pelurie e cosce e vischiosità e seni ben
capezzoluti e natiche globose e nuche e pieghe e labbra protese e
umidi e muschiosi anfratti.
Per
chi ancora non avesse capito di cosa sto parlando, cosa voglio da una
donna, io? Prima di tutto, fanculo tutte le aspiranti regine,
principesse e principessine. E chi la vuole una principessa di questa
minchia, una somma cacacazzi che rompe le palletutta la notte perché
sotto venti materassi e venti cuscini c’è nientepopodimeno che un
pisello? La donna che potrei amare quel pisello deve volerselo
cavalcare e succhiare tutta la notte, e di gusto, e poi risputarlo
fuori solo per il gusto di succhiarlo di nuovo più a fondo. Ma chi
se la incula una principessa affacciata come un tappeto da sbattere
alla finestra della torre del castello, per quanto incularsela in
quella posizione verrebbe pure facile, lì ad attendere sospirando un
principe azzurro o cavaliere senza macchia e senza paura? Niente
principesse per me, sbagliano indirizzo, sono costantemente
terrorizzato dalla vita io, e i miei incubi non li affronto caricando
lancia in resta, ma pisciandogli in faccia controvento, e poi ormai
ho talmente tante macchie di sperma incrostate sul corpo, qua e là
anche qualche chiazza di secrezione vaginale, dio le benedica, che
somiglio a un fottutissimo quadro di Pollock da qualche milione di
dollari all’asta di Sotheby’s, eppure valgo un cazzo io. La donna
che posso amare non se ne deve stare rintanata nella sua merdosissima
rocca ad opprimere contadini ed aspettare che la liberi da qualche
incantesimo, è disposta a vendersi l’anima e a insudiciarsi lungo
le strade più fetide e maleodoranti e malfamate di questa terra pur
di giocarsi la possibilità su un milione di trovarmi, proprio come
sto facendo io per lei, basta guardare in quale cloaca maxima mi
trovo ora: ****, e senza neppure un bukkake in cartellone.
E
poi la mia donna dev’essere una donna, visto che non riesco ancora
a derogare alla mia perversa, granitica eterosessualità. Logica
matematica assiomatica: come A è uguale ad A, una donna è uguale a
una donna. Dio come mi eccitano le tautologie. Allora specifichiamo
cos’è una donna. La definizione più pregnante che mi viene in
mente è un parto apocrifo della congiunzione carnale tra la
filosofia epicurea e la pubblicità di una caramella alla menta.
Dicesi donna un buco con un po’ di carne attorno. Saggezza
filosofica rivisitata in salsa popolare, con una formula ricavata da
una scritta leggibile esclusivamente sulle porte dei cessi delle
migliori stazioni di servizio d’Italia dove nove volte su dieci
l’ho intagliata io, tra l’altro. Non che la condivida
letteralmente questa bestialità. Una donna è molto più di un buco
con un po’ di carne intorno. Minimo minimo sono tre buchi con un
po’ di carne intorno, tanto per cominciare. Di sicuro tre sono i
buchi che ho contato. E adoperato. E lubrificato quando madre natura
non provvedeva autonomamente. E l’ho fatto in quanto uomo, ossia
buco con un po’ di carne attorno, in piccola parte foggiata a mo’
di protuberanza cilindrica di alternante consistenza. Insomma, ci
siamo capiti. Per chi avesse ancora dubbi posso offrire gratis
lezioni di lubrificazione. A tutte le tri-traforate presenti,
assicuro ben altro che quei cazzetti esitanti e approssimativi dei
vostri scopamici – gesummaria che parola del cazzo vi siete
inventati per descrivere l’escrescenza corporea di un cazzo. Sempre
che riusciate a farmelo rassodare, che di questi tempi il mio si è
fatto piuttosto schifiltoso. O forse è angosciato dal global
warming.
Ma
lasciamo perdere per un attimo il buco. Voglio sbalordirvi: per me
conta parecchio la carne attorno. E allora il dilemma diventa: quanta
carne? E’ una donna in carne, si dice. Stramaledetti ipocriti. E’
grassa, cazzo, quella donna è fottutamente grassa. Ma sono
indulgente, la mia donna può pesare quanto le pare, che se la veda
col suo metabolismo carogna o con le tentazioni da gola profonda,
siano meringate e pompini, magari simultanei. Se la veda col diabete
o l’osteoporosi o l’insufficienza cardiaca, cazzi suoi. Voi
parlate di donne obese dove io vedo magnifiche masse lardose da
manipolare, poppe colossali, culi dove una natica si rovescia
nell’altra e poi tutte assieme si avvitano in una successione
marina di onde rosacee che devi stare attento quando le sculacci
perché se si agitano troppo poi tocca prendere la xamamina. Ho visto
e conosciuto biblicamente donne talmente obese che gli interstizi dei
rotoli sudati della pancia consentivano scopate – o dio solo sa
come chiamarle – più gratificanti di quelle vaginali. Nella donna
porcamente obesa si moltiplicano le opportunità di penetrazione e
planare con l’uccello su quelle colline di polpa madida è come
suonare uno xilofono, un colpo qua, uno là. Quindi non rompa il
cazzo a contarsi le calorie, la mia donna amata potrà essere
scheletrica così come mastodontica. Basta che me lo faccia rizzare
sempre e nello scoparmi sappia catapultarmi il cervello e tutti i
suoi pensieri del cazzo negli sprofondi più insondabili del creato.
Obesa,
scarna, adiposa, corpulenta, me ne fottono due cazzi e mezzo. Ma ogni
donna che incontro per farmi innamorare deve passare un test
cruciale, di natura estetica, quello sì inesorabile, un giudizio
freddo da esprimere con la stessa professionale e serena coscienza di
un dottor Mengele durante la prima selezione alla discesa dai treni
ad Auschwitz: niente di personale, ma se ti indirizzo da questo lato
puoi continuare ad esistere ancora per un po’, dall’altro invece
Aufwiedersehen [silenzio
raggelato nella sala, non vola una mosca. Lui scoppia a ridere
con aria soddisfatta] E con questo schifo di battuta ho vinto una
scommessa con un amico ebreo che avrei avuto il fegato di scherzare
sull’olocausto – nessuno ha precisato che dovessi far ridere.
Ehi, cosa sono quelle facce, mica sono antisemita io, vi ho appena
dimostrato il contrario: ho un amico ebreo. E riuscirò persino a
togliergli qualche soldo di tasca, impresa quasi impossibile, si sa.
No, proprio non so cosa sia il razzismo io. Una notte in un bar mi
sono fatto perfino un amico nero, tra una bevuta e l’altra. Poi
però ci siamo persi di vista, in strada era buio. Lo so, lo so,
avere un amico nero non significa che non sei razzista. Eppure esiste
chi lo dice e lo crede davvero: “non sono omofobo io, ho persino un
amico frocio. E poi il mio parrucchiere è un po’ effeminato,
eppure mi faccio massaggiare il cuoio capelluto. Però se scende con
le mani verso il collo è un uomo morto”.
Vabbé,
questa notte trasparenza integrale. Faccio coming out. In realtà
sono un maledetto razzista. Però almeno razzista integrale e
consapevole. Mi sta dolorosamente sul cazzo tutta la razza umana,
senza eccezione alcuna, tutti gli uomini – le donne un po’ meno –
di tutte le pigmentazioni cutanee e di tutti i credi e di tutte le
preferenze sessuali esistenti. Odio il genere umano. O meglio,
l’umanità intesa come massa indistinta, in senso astratto e
ipotetico, potrei persino tollerarla. Gli riconosco enormi
potenzialità d’amore e di solidarietà e di fratellanza e di tutte
le cose buone e belle che renderebbero questo abominio di vita degna
almeno di essere sopravvissuta. Quante occasioni sprecate, che grande
potenziale inespresso. E’ la colpa è degli individui concreti,
quelli in carne e ossa, sono loro che mi fanno veramente orrore. Con
poche e sorprendenti eccezioni siete così deludenti, ottusi,
ignoranti egocentrici, inutilmente crudeli prima ancora con voi
stessi che con gli altri – basta guardare lo scorrere miserabile
dei vostri giorni, uno dietro l’altro, finché finiscono e nessuno
se ne accorge, neppure voi. Sono decine di millenni che i campioni
della nostra razza si scannano voluttuosamente per depredarsi di un
tozzo di pane o per dimostrare che il loro dio ce l’ha più grosso
o per fottersi le donne altrui. Sì, sono razzista io, antropofobico
per amor di precisione.
Ad
ogni buon conto, da razzista conclamato, per prevenire inutili ed
evitabili polemiche ci tengo qui a precisarlo pubblicamente. Mengele,
il sadico medico torturatore delle SS, era una gran brutta persona.
Forse persino peggiore di me. Ma dio mica l’ha punito per questo, è
scampato alla caccia degli ebrei giustamente infastiditi dalla sua
salvezza terrena e ha finito i suoi giorni in Sudamerica libero come
una rockstar ritiratasi dalle scene dopo i trionfi di gioventù, a
scoparsi le sue groupie, le vecchie fanatiche ex-kapò che si
avventuravano nella foresta amazonica per idolatrarlo, circondato dai
camerati nazionalsocialisti del cazzo a bersi litri birra bavarese
intonando vecchi inni patriottici e canzoni di guerra. Questo valga
per le circoncise teste di cazzo baciapile che credono nella
giustizia divina. Ah già, ci sarà pur sempre il castigo
ultraterreno…. Spiace deludervi. Fonti confidenziali – ho un
amico prete esorcista culo e camicia con alti prelati del Vaticano,
visto che non sono anticlericale? – mi dicono che Mengele ha
fottuto il posto a San Pietro, adesso è lui ad accogliere i
neo-deceduti, li aspetta allo sbarco in cielo per indirizzarli verso
la destinazione finale: Inferno Purgatorio Paradiso. Praticamente
come ad Auschwitz.
Ma
sto divagando. Dov’ero rimasto? Già, l’estetica. Ma che cazzo,
la mia donna non deve essere “bella dentro”. La vomitevole,
menzognera retorica del “bello dentro”. Che me ne fotte di un
pancreas incantevole? Ah, ho visto la tua ecografia, le pieghe
armoniose del tuo intestino crasso mi hanno fatto girare la testa e
rizzare il cazzo… Hai un esofago tanto sexy, amore, chissà come
starebbe bene con i reggicalze… Fanculo la bellezza interiore.
Bella di fuori la voglio la mia donna da amare, esteticamente
gradevole e gradita incubatrice del mio desiderio di fotterla fino a
venire io e svenire lei, o magari viceversa. E deve avere due belle
tette. Tre sarebbero troppe. Una troppo poco, quindi astenersi
mastectomizzate.
Potrei
innamorarmi di una donna che non abbia paura di scappare da se stessa
a rischio di perdersi, e lo faccia un milione di volte, ma ogni volta
abbia forza e pazienza di raggiungersi e il coraggio di lasciarsi
fuggire di nuovo. E che abbia voglia di farlo tenendomi per la mano o
per il cazzo, visto che dove da soli ci si perde in due si va in
esplorazione.
Ecco. Voglio una donna che stringa sempre la mia mano nella sua,
anche quando sono madide di sudore o abbiamo le unghie sudicie. E
nulla dovrà essere nascosto tra noi, specie quello che formicola nei
recessi del cervello, tra le ombre più spesse della mente. Si
punteranno fari e si accenderanno candele, ci si squarcerà il cuore
se occorre, perché poi vinavil e ago e filo fanno miracoli, basta
che ogni mio moto o increspatura d’animo le sia svelato, e i suoi a
me.
Potrei
innamorarmi di una donna kantiana, che riempia il suo animo di
ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente per tre cose, il
cielo stellato sopra di noi e la legge morale in noi e il cazzo che
protubera da me, e le veda davanti, specie il cazzo, e le connetta
immediatamente con la coscienza della nostra esistenza. Non mi
accontento che rimastichi un po’ di filosofia del liceo. Vorrei che
sapesse innalzarsi sprofondando e inabissarsi elevandosi verso i
cieli neri senza stelle che conteniamo, perché nel nostro universo
morale non dovranno esistere alto e basso. Quelle categorie verticali
valgono nella visione farisaica della vostra vita unidimensionale, la
morale di chi si bea nel riconoscere e giudicare la cadute degli
altri per non guardare alla dissipazione di materia ed energia che
chiamano vita, a un’esistenza trascorsa abdicando da ogni
responsabilità dopo aver delegato ai sacerdoti del dio cui pagano il
pizzo o a qualche altro guru a gettone il verdetto su ciò che è
bene o è male.
Potrei
amare soltanto una donna intelligente, questo è poco ma sicuro. Anzi
è tanto e insicuro, vista la rarità della merce. Abbastanza
intelligente da stare alla larga dai test d’intelligenza e dai
riconoscimenti sociali che vanno per la maggiore: “ma quant’è
profondo, ma che mente raffinata, senti come parla e scrive
difficile...”. Parla e scrive difficile perché è una testa di
minchia che non ha nulla di significativo da comunicare, ammasso di
idioti certificati che se facessero un campionato mondiale
dell’idiozia arrivereste primi, visto che siete talmente idioti da
non capire che i veri vincitori sono quelli che arrivano secondi;
perché secondi? Perché sono più idioti di voi che invece avete
stupidamente vinto la gara degli idioti, quindi moralmente siete
secondi. Quindi in realtà forse siete voi i più idioti, alla fin
fine. Cazzo, avevo sottovalutato la vostra idiozia. E comunque quella
testa di rapa vi getta in faccia vocaboli astrusi e costruzioni
linguistiche arzigogolate come una cortina fumogena per confondervi e
rifuggire grazie al vostro sguardo bovino di ammirazione dalla
consapevolezza della propria nullità. L’orrore, l’orrore delle
parole che non significano niente ma nelle orecchie purtroppo prive
di cerume – dio stramaledica i cotton fioc – ottenebrano i
pensieri avvolgendoli in un involucro di nauseabondo zucchero filato
di bei suoni.
No,
la donna che potrei amare deve essere intelligente perché capace di
innalzarsi dalla mediocre superficialità del vostro universo di
pensiero, da questa umanità in media stupida in tante di quelle
forme e modi che fa quasi male osservarle e riconoscerle, una povera
umanità da pensiero debole, dominata da quei figuri che restano
inesorabilmente coglioni anche quando esibiscono come un trofeo di
caccia qualche volume pieno di rimasticature e riempiono le sale
conferenze e gli studi televisivi incantando masse di decerebrati con
sbrodolate di banalità, intrappolati per tutta l’imbarazzante
durata della loro scoreggia purtroppo rumorosa di vita in quelle due
coordinate spregevoli che sono l’io e il successo, e magari nel
loro presente pensano di intravedere chissà quale destino
dell’umanità. La mia donna da amare deve saper decifrare con me
anche la stupidità nascosta del mondo e di troppi esseri umani che
lo calpestano e quella stupidità disprezzarla con tutta se stessa,
senza neppure bisogno di schifare gli uomini che ne sono untori o
portatori sani, che a disprezzare loro basto io. Senza perdere tempo
a cercare di cavare sangue dalle rape, perché alla fin fine, dopo
tutti gli sforzi, se proprio va di lusso restano in mano una rapa
spremuta e qualche goccia di sangue. Magari pure infetto. La temibile
epatite della rapa che miete migliaia di vittime in Africa.
La
mia donna da amare dovrà essere immune da questa pestilenza
d’idiozia che ha infettato il genere umano e non conosce vaccini.
Come nel proverbio cinese della luna e dello stolto, se alla mia
donna indico la luna col dito, cazzo, lei deve guardare solo il dito.
E umettarlo infilandoselo in bocca, e subito dopo su per la fica.
Perché il dito è qui, è tangibile su questa terra, e in quel
momento è lì soltanto per lei e per me, e ben ci serve per
insinuarsi su e giù per i nostri pertugi gaudenti. La luna è
soltanto uno stupido disco quasi sempre incompleto che riflette una
luce che neppure le appartiene. La luna la lasciamo fissare agli
innamorati coglioni che si sognano protagonisti di qualche sbrodolata
di film romantico. Mille volte meglio un sano ditalino.
Deve
essere logorroica la donna che potrei
addirittura
amare,
deve stordirmi d’un turbine inesauribile di parole ponderose o
spensierate per riempire
con quei suoni carezzevoli anche quando feriscono i
vuoti del
mondo
e coprire
lo
strepito
della
mia mente
con
le sue chiacchiere
e
farmi
finalmente
pace
nella testa. Deve dirmi e darmi tutta la sua vita passata e presente,
distillata in una corrente d’aria umida e
torrida che
dalla bocca mi trasmetta il suono trascendente della sua anima,
incontaminata o verminosa che
sia non
m’importa,
purché si
accordi
alla mia intonazione
e
riesca
a comprendere
quello che si nasconde dietro i miei balbettii e le mie oscenità
e non mi faccia sentire
mai più
solo neppure
dopo che mi avrà lasciato, se proprio deve.
E
che dopo avermi rintontito di frasi sensate sappia restarsene in
silenzio devoto quando proprio non riesco a trattenere uno dei miei
monologhi, rovesciandolo
tutto su di
lei. E non si spaventi e non si ritragga inorridita di fronte
all’inferno che balugina in quanto
le rigetto addosso.
Perché
comprende che in quella dannazione che ci ribolle dentro si nasconde
il seme di ogni cambiamento concepibile,
e non ha paura di scoprire la propria.
[imitando
il tono di
un prete
dal pulpito]
Dal
vangelo secondo Giovanni
: “In principio era il Verbo, il
Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”
Per
forza io
e quel dio proprio non
ci capiamo, non
riusciamo
ad
andare d’accordo.
Solo
il verbo all’infinito sa usare, sembra
un fottutissimo Gioca
Jouer:
[imitando
la musica del Gioca Jouer in sottofondo]
“Soffrire”
“Pregare”
“Espiare”
“Pagare”
“Crepare”.
La
donna che potrei
riuscire
ad amare
dovrà
essere
migliore di quel dio illetterato. Non
occorre molto, alla fin fine. Oltre
al verbo coniugato
sarà sufficiente che
utilizzi
con sufficiente
proprietà di
linguaggio
qualche nome
pronome
preposizione
congiunzione
interiezione
esclamazione avverbio
aggettivo
e
complemento,
e
grazie a quelle parole
tutto
ciò che esiste nell’universo
avrà
in
qualche modo a
che fare con noi
passando
attraverso
connessioni
misteriose, e lei
dovrà
parlare
e parlare e parlare fino
allo stordimento e
aiutarmi a riempire con le
lettere del
suo abbecedario infinito le
caselle del cruciverba di questo cazzo di settimana enigmistica che è
il
nostro esistere
quotidiano.
Se
poi sbaglia un congiuntivo, passi. Due, vada affanculo.
Altrimenti,
sono
finito. Altrimenti… [con
voce impostata da attore shackespiriano]
la mia
vita
resterà
una storia
narrata da un idiota, piena di rumore e strepito, che non significa
niente:
There
would have been a time for such a word.
To-morrow,
and to-morrow, and to-morrow,
Creeps
in this petty pace from day to day
To
the last syllable of recorded time,
And
all our yesterdays have lighted fools
The
way to dusty death. Out, out, brief candle!
Life's
but a walking shadow, a poor player
That
struts and frets his hour upon the stage
And
then is heard no more: it is a tale
Told
by an idiot, full of sound and fury,
Signifying
nothing.
E’
Macbeth, razza di caproni respinti in prima elementare, e sto
parlando della scuola delle capre. Per la prima volta in vita mia mi
sento sprecato per qualcuno, e quel qualcuno siete voi. Mi contento
di non essere sprecato per lei, la donna che potrei amare. Quasi
dimenticavo: la gradirei sempre disponibile a scopare o se preferite
la mistificazione linguistica a fare l’amore, con la capacità
metafisica di donarmi un click all’interruttore della coscienza.
Deve volermi scopare fino alla morte perché voglio morire felice, e
magari anche da morto – dio benedica il rigor mortis – perché
così voglio essere ricordato da lei e dal mondo: rigoroso e
arrapato. Deve volermi scopare sempre, in ogni momento del giorno e
della notte, mattino pomeriggio sera crepuscolo e aurora. Al minimo
segnale di desiderio fisico o mentale, che sia turgido o meno il mio
generoso membro virile, dovrà essere a disposizione. Non certo
perché infilzarsi col mio cazzo le sia indifferente, ma perché sa
fare tesoro del miracolo terreno di quel desiderio che lo fa
innalzare imperioso o avventurarsi barzotto nel mondo, e questo basta
divinamente ad accendere la sua passione che si trasmette alla mia e
la amplifica, come due specchi che riflettono a vicenda possono
generare l’illusione di uno spazio infinito, oltre a permettere una
visione ravvicinata dell’amplesso che è pur sempre onorevole
pornografia amatoriale gratuita. Almeno finché quegli specchi non si
rompono, forse quando ci diamo dentro con troppa energia, e allora
saranno sette più sette uguale quattordici anni di guai. Ma che me
ne fotte a me: tra quattordici anni è probabile e auspicabile che
sia trapassato, spero felicemente scopando.
Potrei
amare una donna che mi accetti e mi voglia non soltanto per la merda
rimasticata e ridefecata che sono, ma anche per la meraviglia
d’essere umano che non potrò mai essere, che non voglio essere,
che probabilmente mi farebbe orrore essere. Di più. La donna che
potrei incredibilmente amare dovrebbe amare anche la mia merda, come
io amerei la sua.
Deve
mandarmi fuori giri questa donna potente e inconcepibile, pigiare
forte sul piede della mia frizione emotiva con l’acceleratore al
massimo e farmi rombare dentro fino a fondere cervello e motore. Deve
proprio guidare a cazzo, insomma.
Ecco,
importantissimo. La donna che sarei capace di amare deve saper
programmare tutto per rassicurare il mio intimo caos, ogni istante e
contingenza di vita, lasciandomi però la libertà di cambiare tutto
all’ultimo istante, totalmente a cazzo, perché non c’è niente
di più salutare ed esaltante che organizzare in modo razionale la
propria intima anarchia.
Non
deve soffrire d’insonnia la mia donna, voglio che mi lasci solo a
rigirarmi nel letto o in casa in quelle notti eterne in cui tutto è
sospeso e respiri a pieni polmoni quella verità e quella pace
solitaria che nessuno schifo di giornata affollata di suoni e gente
potrà mai regalarti. Così potrò ascoltarla mentre ronfa beata, se
ronfa, e se mi rompe il cazzo magari riscuoterla dolcemente
strofinandole il cazzo sulla bocca socchiusa. E se avverto un bisogno
di solidarietà e comprensione emotiva potrò scoparla tutta la
notte. Ancora meglio se si addormenta estenuata tra le mie braccia,
che a me la donna letargica ogni tanto fa sangue.
Deve
ridere la donna che potrei amare. Deve ridere tantissimo e di gusto,
esclusivamente per tre cose, quelle giuste, follia ottusità e
crudeltà del mondo. Di tanto in tanto potrebbe anche ridere mentre
me lo prende in bocca, che di vibrazioni e sussulti si nutrono
l’animo e il cazzo mio. Basta che non rida per le dimensioni del
cazzo. Di quelle del cazzo degli altri uomini, lecito. Non è
incoraggiato, ma tollerato. Ma che non pronunci mai la drammatica
formula delle dimensioni che non contano, perché i sottotitoli
urlerebbero che ce l’ho piccolo. Perché possa amarla deve
convincermi che ho il cazzo più lungo e grosso che abbia mai visto.
E io farò finta di crederle.
Trovatemi
una donna che non mi annoi mai. E’ prevista una ricompensa. Potrà
utilizzare parole magiche, trucchi da illusionista, cantare l’inno
nazionale coi rutti, regalarmi fragorose scuregge vaginali mentre
scopiamo, decida lei. Bramo da amare una donna che non cerchi di
sprofondarmi nel fastidio condiviso dei suoi luoghi comuni. Che mi
diverta divertendosi con me.
E
deve cantare questa donna impossibile, deve cantare tutti i giorni a
pieni polmoni per vincere l’angoscia e soffocare la tristezza e per
raccontare l’euforia, appena sveglia e mentre guida l’auto, e
intonare piano nel mio orecchio le canzoni che abbiamo ascoltato
assieme, cantare in coro con me o da sola perché ho dimenticato come
al solito le parole. Sarà il mio karaoke vivente. Se invece è
stonata, fanculo e zitta, canto solo io mugolando perché non mi
ricordo il testo.
La
donna che potrei amare dovrà avere la pelle morbida e setosa, con un
odore speziato, perché la sua pelle sarà la mia. Metaforicamente e
carnalmente, non nel senso che la scuoio e me la indosso come un
soprabito, per quanto Hannibal the Cannibal sia stato ingiustamente
demonizzato, in fondo era solo un romantico incompreso. E poi sentiva
l’odore di fica a distanza, proprio come me.
La
donna che potrei persino amare non deve avere paura di smettere
d’amarmi se mai dovesse accadere. Senza mentire a me e soprattutto
a se stessa, quando sarà il momento che sia capace di dissezionarmi
chirurgicamente l’aorta e di squarciarmi i ventricoli. Andarsene
senza esitazioni e senza voltarsi indietro, che non tenti di
addolcire con un’elemosina di pietà la cicuta che berrò con
socratico disprezzo di questa vita indegna. Vabbé, se proprio
insiste vada per una scopata ogni tanto, in memoria dei bei tempi
andati.
Da
ultimo, e si tratta forse del più importante di ogni altro
requisito: la donna che potrei amare deve essere capace di pisciare
ovunque, per la pura gioia di farlo specie se scappa forte, e
fottersene del giudizio della gente che ci potrebbe vedere. Giù le
brache e via. Perché su questo mondo cannibale e sui suoi giudizi noi ci pisciamo sopra, che altro non meritano.