Facile parlarsi d’amore
sulla mezzaluna
d’una spiaggia spopolata
col tramonto che dal
mare già nero
smorza piano le
braci all’orizzonte
trasmettersi
l’impellenza del sentimento
di fronte alle
coreografie di un’aurora boreale
che erompe tale e
quale al prodigio d’un illusionista
o mentre guardiamo
dalla costa
sui fianchi d’un
Etna colossale
le cicatrici
infernali d’una colata di lava
in una notte di fine
gennaio
l’aria ferma e
affilata
come in una bolla di
cristallo
ovvero, ancora più
convenzionale
nella culla d’un
letto disfatto
gambe e sensi ancora
attorcigliati
nell’intorpidirsi
che segue il piacere
per quella volta
inatteso
o sotto una curva
parabolica di stelle
perfetta come una
formula matematica
se non – a voler
esagerare
fra i tanti
arcobaleni di Iguazù, chiavi di volta
innalzate nella
nebbia d’un concerto di cascate
o mentre suona la
stessa musica della sera inesauribile
in cui capimmo di
non avere altra scelta che amarci
(e se invece tutto
taceva fuorché noi – qui il ricordo sfuma –
ogni canzone ci
parrà quel silenzio)
o magari tra i
ruderi d’una chiesa a cielo aperto
l’abbazia di San
Galgano sede ideale
di fronte all’altare
spoglio di pietra
arreso all’evidenza
d’un amore terreno
al punto che nessun
dio potrebbe averlo mai concepito
tanto meno creato
così a noi due soli
toccò quel potere.
Chiunque potrebbe
dirsi parole d’amore
nel suo abito più
semplice, in un ambiente protetto
persino coglierne
significato e valore
esagerandoli un po’,
com’è giusto che sia
poiché eccessivo è
il concetto stesso d’amore.
Non è da me. Non fa
per noi
che siamo anime
sedimentarie
e le storture dei
nostri cuori
le custodiamo quali
segni più cari.
Se abbiamo un
segnaposto su questa terra
coincide con ciò
che è in eccesso, e a volte spaventa
come il colpo in
petto dell’extrasistole.
Perciò ci
dichiariamo roteando
in un girotondo di
luna sulla pietra leccese
e succede in
silenzio, che bastano gli occhi e le mani.
Allora vorrei
saperti dire dell’amore ch’è il nostro
in occasioni
dissennate, inopportune, sciagurate
attingendo
fedelmente da un manuale difettato.
Durante un sonno
senza sogni, di certo
affondare parole
come pietre lanciate
in un lago notturno
nella parte
incosciente di te
che sa accoglierle
al meglio, e sola capirle
oppure mentre il
fruscio del tuo fiotto d’urina
ne discioglie suono
e senso compiuto
avvolgendole in un
calore carnale.
Sublime sarebbe poi
il paradosso
parlarti subissato
dal riso smodato d’una moltitudine
in risposta alla
freddura grossolana
d’un guitto che si
pavoneggia sul palco
nell’arena
stracolma dove entrammo per caso
un po’ come in
questa vita, a ben pensarci.
Chissà se oserei
far sbattere sdrucite frasi d’amore
con l’ostinazione
di mosche intrappolate
contro la vetrata
oltre la quale si sfogano
i veri orrori del
mondo, invisibili ai più
un reparto
oncologico, per dire
dove il male
colpisce cieco e puro
e ognuno abbandonato
dal proprio dio
torna alla fine
inutilmente innocente.
Uno di quei siti
dannati, cristiddio, un mattatoio
nel punto esatto del
loro passaggio
in cui gli animali
percepiscono la destinazione
e s’impuntano
recalcitranti con nudo terrore.
O nell’abitacolo
della nostra auto bloccata in fila
mentre tutt’attorno
gli sciacalli s’accalcano
per la visione
ravvicinata d’asfalto chiazzato
e lenzuola sui
corpi.
Chissà se riuscirei
a parlarti d’amore
mentre fai l’amore
con un altro, se devi,
confidando solo di
dissolvere
ogni nervo e fibra
qualsiasi coscienza
di me
che non sia in
quell’amore.
Vorrei poter dire
queste parole
alla te che sei
stata prima di trovarci
quella te che era e
sarà all’infinito
ostaggio della mia
assenza
e sollevarla così
dall’attesa
d’un amore che,
certo hai capito
riconosciamo da un
anno, un anno solo
ma è sempre
esistito.