domenica 2 febbraio 2020

Manuale difettato per l’uso delle parole d’amore



Facile parlarsi d’amore
sulla mezzaluna d’una spiaggia spopolata
col tramonto che dal mare già nero
smorza piano le braci all’orizzonte
trasmettersi l’impellenza del sentimento
di fronte alle coreografie di un’aurora boreale
che erompe tale e quale al prodigio d’un illusionista
o mentre guardiamo dalla costa
sui fianchi d’un Etna colossale
le cicatrici infernali d’una colata di lava
in una notte di fine gennaio
l’aria ferma e affilata
come in una bolla di cristallo
ovvero, ancora più convenzionale
nella culla d’un letto disfatto
gambe e sensi ancora attorcigliati
nell’intorpidirsi che segue il piacere
per quella volta inatteso
o sotto una curva parabolica di stelle
perfetta come una formula matematica
se non – a voler esagerare
fra i tanti arcobaleni di Iguazù, chiavi di volta
innalzate nella nebbia d’un concerto di cascate
o mentre suona la stessa musica della sera inesauribile
in cui capimmo di non avere altra scelta che amarci
(e se invece tutto taceva fuorché noi – qui il ricordo sfuma –
ogni canzone ci parrà quel silenzio)
o magari tra i ruderi d’una chiesa a cielo aperto
l’abbazia di San Galgano sede ideale
di fronte all’altare spoglio di pietra
arreso all’evidenza d’un amore terreno
al punto che nessun dio potrebbe averlo mai concepito
tanto meno creato
così a noi due soli toccò quel potere.

Chiunque potrebbe dirsi parole d’amore
nel suo abito più semplice, in un ambiente protetto
persino coglierne significato e valore
esagerandoli un po’, com’è giusto che sia
poiché eccessivo è il concetto stesso d’amore.
Non è da me. Non fa per noi
che siamo anime sedimentarie
e le storture dei nostri cuori
le custodiamo quali segni più cari.
Se abbiamo un segnaposto su questa terra
coincide con ciò che è in eccesso, e a volte spaventa
come il colpo in petto dell’extrasistole.
Perciò ci dichiariamo roteando
in un girotondo di luna sulla pietra leccese
e succede in silenzio, che bastano gli occhi e le mani.

Allora vorrei saperti dire dell’amore ch’è il nostro
in occasioni dissennate, inopportune, sciagurate
attingendo fedelmente da un manuale difettato.
Durante un sonno senza sogni, di certo
affondare parole
come pietre lanciate in un lago notturno
nella parte incosciente di te
che sa accoglierle al meglio, e sola capirle
oppure mentre il fruscio del tuo fiotto d’urina
ne discioglie suono e senso compiuto
avvolgendole in un calore carnale.
Sublime sarebbe poi il paradosso
parlarti subissato dal riso smodato d’una moltitudine
in risposta alla freddura grossolana
d’un guitto che si pavoneggia sul palco
nell’arena stracolma dove entrammo per caso
un po’ come in questa vita, a ben pensarci.
Chissà se oserei far sbattere sdrucite frasi d’amore
con l’ostinazione di mosche intrappolate
contro la vetrata oltre la quale si sfogano
i veri orrori del mondo, invisibili ai più
un reparto oncologico, per dire
dove il male colpisce cieco e puro
e ognuno abbandonato dal proprio dio
torna alla fine inutilmente innocente.
Uno di quei siti dannati, cristiddio, un mattatoio
nel punto esatto del loro passaggio
in cui gli animali percepiscono la destinazione
e s’impuntano recalcitranti con nudo terrore.
O nell’abitacolo della nostra auto bloccata in fila
mentre tutt’attorno gli sciacalli s’accalcano
per la visione ravvicinata d’asfalto chiazzato
e lenzuola sui corpi.
Chissà se riuscirei a parlarti d’amore
mentre fai l’amore con un altro, se devi,
confidando solo di dissolvere
ogni nervo e fibra
qualsiasi coscienza di me
che non sia in quell’amore.

Vorrei poter dire queste parole
alla te che sei stata prima di trovarci
quella te che era e sarà all’infinito
ostaggio della mia assenza
e sollevarla così dall’attesa
d’un amore che, certo hai capito
riconosciamo da un anno, un anno solo
ma è sempre esistito.